Il referendum ha dato un risultato inaspettato da tutti e ha trovato tutti impreparati.
I nuovi protagonisti della scena politica e mediatica scrivono e dicono tutto ed il contrario di tutto.
L’importante è apparire.
Ovviamente le discussioni si basano su aspetti superficiali ed inesatti.
Cominciamo con il più semplice: il Regno Unito non è il primo paese che vorrebbe – condizionale d’obbligo – uscire dalla Unione.
La Groenlandia fece parte della Comunità Economica Europea, come territorio danese, dal 1973 fino al 1985, quando decise di uscirne con referendum.
Paese esteso quasi un terzo dell’Australia, pochi abitanti ma grandi giacimenti di uranio – e non è poco.
Vediamo ora, restando distaccati dalle polemiche e dagli aspetti prettamente politici, quali sono le azioni che il Regno Unito deve compiere per uscire effettivamente dalla Unione.
In base alla legislazione inglese il referendum ha valore consultivo per il governo che non è obbligato a ratificarlo.
L’attuale parlamento è composto per oltre il 70% di parlamentari contrari alla uscita dalla Unione.
La Scozia ha votato a favore del “Remain” ed intende porre il veto alla uscita o, in alternativa, chiedere un secondo referendum per uscire dal Regno Unito e restare nella Unione.
L’Irlanda del Nord ha votato a favore del Remain ed ipotizza un referendum per riunificarsi con la Repubblica Irlandese.
I cittadini hanno presentato una petizione al governo per ottenere un secondo referendum che preveda anche una maggioranza qualificata di votanti e voti affinché sia valido. In pochi giorni sono stati superati i quattro milioni di firme. Alcuni parlamentari hanno dichiarato espressamente che è necessario un secondo referendum.
David Cameron si è dimesso con effetto dal prossimo ottobre, giusto per far calmare le acque, ma non ha alcuna intenzione di far convalidare il referendum.
I suoi possibili e probabili successori George Osborne, contrario alla uscita, e Boris Johnson, favorevole, si stanno allineando sulla posizione di non ratifica.
I laburisti chiedono elezioni anticipate ma non sono d’accordo con gli attuali dirigenti che considerano incapaci di vincere le eventuali elezioni generali.
Se si dovessero tenere elezioni anticipate, oltre a vincere le elezioni, sarebbe necessario che la maggioranza degli eletti fosse favorevole all’uscita; ipotesi molto improbabile.
Quindi anche con le eventuali elezioni anticipate si ritorna al punto di partenza.
Veniamo alla procedura che riguarda sia la ratifica dei risultati del referendum sia la notifica della decisione di uscire dalla Unione al Consiglio d’Europa.
Il Referendum, ricordiamo, ha carattere consultivo e non obbliga il Parlamento ad indire una sessione per la sua ratifica. Alla data odierna il Governo non intende assolutamente attivare la procedura di ratifica.
Nel caso in cui un futuro governo cambi opinione il referendum potrà essere ratificato o meno dal Parlamento.
Nell’ipotesi di ratifica il Governo deve notificare la decisone al Consiglio Europeo: non e’ previsto alcun termine, perentorio o ordinatorio, per effettuare questa notifica.
Quindi tutto può restare lettera morta.
Ammettiamo che il Parlamento ratifichi e che il Governo notifichi la decisione di uscire dalla Unione.
Non esamineremo ora la procedura di uscita; quello che importa è che i “Leave”, vorrebbero uscire dalla Unione ma restare nel Mercato Comune con accordi mutuati da quelli vigenti con la Norvegia o con la Svizzera.
Questo significherebbe il mantenimento della libera circolazione di merci, persone e capitali.
Il Regno Unito avrebbe tutti i costi per mantenere le regole europee ma cesserebbe di poter intervenire in sede legislativa in quanto non più rappresentato nel Parlamento europeo: un vero autogoal.
Ultim’ora: la regina Elizabeth non vuole che si esca dalla Unione, sa benissimo che sarebbe la fine del Regno Unito.
Lasciamo che il tempo faccia il suo corso: “keep calm and carry on”, ignoriamo gli inutili ed intempestivi allarmismi.
Guido Ascheri
Ragioniere commercialista e Chartered Accountant in Londra
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